Nella carne entra questo dolore
senza sapere che cosa vuole;
s’incunea dalla pelle alle ossa
e scava, scava; scava. Cerca l’oltre.
Oltre che cosa?
Le mani pongo lì dove mi duole;
non vedo sangue, né con esso
s’in umida la mano; eppure soffro;
soffro. Soffro per un malato
che la notte agogna, l’ultima,
poiché un atroce dolore
di giorno a lui sfuma la carne
e, sul fusto marcio, gela la pelle
in giovinezza lucente e bella,
rigogliosa e forte, ora bianca
e pallida, d’apparenza diafana
mostra ad una ad una l’ossa;
mentre il viso implora il sonno
e di pietà gli occhi rivolge a Dio.
Sul cuore torrentizie sono
le lacrime sue e della donna
che alle grida trema e prova,
a somiglianza, lame sottili
tagliuzzare la carne; lei,
che tanto amò quell'uomo
con gli occhi lucenti e vivi,
dei suoi affanni parla
invece con voce mesta: essi,
impressi, hanno il pianto
che, nelle tenebre, silenziosa versa
così pregando la carità divina
affinché a lui regga la forza
se a nuovo albeggiare il cielo
senza pietà sulle sue membra torna.
Ahi voi, che lo sguardo portate
baccante al mare; che ad uso
e d’uopo delle vostre membra,
imperituro il corpo, piegate al vizio,
volgete lo sguardo sulla mia faccia:
non io sull'altare sono l’agnello;
ma un uomo stanco
e al fatale destino arreso;
o solo un corpo esangue
di cui stolti perdeste il riso
ed ora ingrati ignorate il pianto.
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Monito
Giuseppe Ambrosecchia