Lassù, solitario fiore,
se ai piedi della scogliera
su cui dalla vetta tu spii l’orizzonte
anche la mia solitudine che non ha conforto,
chi ti sosterrà nel gioco
se nessun fratello mai
ti darà tua madre?
I miei silenzi vagheggiano il tuo cielo
tal ché l’erta mi appare
simile al muro che la bocca mi asseta.
E’ un’immensa folla che m’impedisce
di avvicinarmi al pozzo;
è tale che, invalicabile, s’erge
e più accesa rende la sete
- quante travi dovrò rimuove
perché legato alla lettiga
dal tetto dentro io mi cali? -
Oh riva ghiaiosa che accogli da sempre
l’urlo del mare in tempesta e,dolce,
l’acqua schiumosa della cresta dell’onda
poi solerte cancelli nel deflusso ogni ombra
perché non la porti
ove il vento nel cielo incontra lo scapo
e l’orlo celeste sfiora il petalo d’oro,
in alto solleva il mio corpo
per poterlo calare dal foro
giacché l’alta marea non arriva
dove l’agave affonda le proprie radici!
Oh sorgiva lontana
- irraggiungibile dal passo malfermo
e da mani che non tengono gli appigli –
lascia che da una vena d’acqua
anche una sola goccia io beva!
Divina sorgente di pianta spinosa,
rendi l’ardore al passo
che l’infermo non muove;
al collo e alle ginocchia la forza poi
di piegarsi alle carezze del vento che vela
il respiro e la mano pietosa
di un Dio in attesa
che una flebile voce
chieda perdono all'agave e allo scoglio.
L’infermo
Giuseppe Ambrosecchia